Striscia di Gaza, il dolore di una madre “I cani mangiano i corpi dei bimbi” - La Stampa


A harrowing account from Gaza depicts the devastating humanitarian crisis unfolding, where families flee bombings, hospitals overflow, and even aid distribution fails to reach those most in need.
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NUSEIRAT. La Striscia di Gaza è nella morsa di una catastrofe umanitaria sempre più grave. Le famiglie in fuga dai bombardamenti non trovano riparo, perché anche gli accampamenti di tende sono colpiti senza preavviso. Gli ospedali sono sovraffollati, i medicinali scarsi, i bambini non piangono soltanto di terrore, ma anche di fame. Il popolo di Gaza non sta sopravvivendo solo a una guerra: sta affrontando la lenta agonia della vita, senza una strada sicura verso la salvezza o la pace.

Intere famiglie sono state spazzate via da una bomba, i loro nomi sono stati cancellati dalla faccia della Terra prima ancora che potessimo conoscerli. Più di trecentomila persone hanno lasciato di corsa le loro abitazioni, spesso senza portarsi appresso nient’altro che i vestiti che indossavano. Scuole, ospedali e ripari delle Nazioni Unite traboccano di sfollati. In migliaia dormono in tende improvvisate o all’aperto. Anche questi alloggi temporanei, però, non sono più sicuri, e le notizie di bombardamenti sui gremiti campi profughi si susseguono. «Non sappiamo più dove andare» dice Ahmed, padre di tre bambini: «Ogni posto verso cui ci dirigiamo viene bombardato. Cerchiamo di sopravvivere giorno dopo giorno».

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Ma c’è di peggio. Nella città meridionale di Khan Younis, Na’ma Shahwan è rimasta a urlare, sconvolta dal dolore, fuori dall’European Hospital, supplicando i passanti di aiutarla a recuperare i corpi dei suoi due figli. «Ho paura che i cani ne mangino i corpi», ha gridato accanto ai cadaveri dei suoi bambini, colpiti da un bombardamento israeliano mentre cercavano da mangiare durante l’assedio. La sua voce si è alzata al di sopra del caos. Il grido di dolore di una madre sovrasta il rumore della guerra.

A Gaza ci si comporta in modo differente: le persone vivono la quotidianità in modo radicalmente diverso e inconsueto rispetto a prima della guerra, come se fossero alla costante ricerca di un modo per scampare alla morte. Sfollamento ormai vuol dire qualcosa di più di un trasferimento fisico: è una nuova condizione psicologica e comportamentale imposta con la forza. Uno dei cambiamenti comportamentali più visibili è il passaggio da una condizione di pianificazione meticolosa di ogni dettaglio della catastrofe - garantirsi un riparo, trovare cibo, mappare le strade di fuga - a uno stato di improvvisazione totale e di arrendevolezza, senza quasi opporre resistenza a quello che può capitare. Questo fenomeno non è dovuto a una mancanza di consapevolezza o di volontà, ma rappresenta una forma ulteriore di apatia acquisita, condizione mentale che si sviluppa quando una persona è esposta ripetutamente a eventi fuori dal suo controllo. I gazawi hanno iniziato ad abbandonare comportamenti che prima si riteneva potessero tenerli al sicuro semplicemente perché sono esausti e hanno smesso di opporre resistenza, essendosi resi conto con il loro doloroso vissuto che la sopravvivenza non è più legata alla logica o alla pianificazione, ma alla fortuna, alle coincidenze, a una forza soverchiante.

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Asmaa Al-Khudari di Al-Saftawi conferma questo cambiamento profondo: «Ammetto di essere sconvolta dalla tragedia a cui ho assistito. Sono devastata per aver visto madri e bambini sfiancati per la strada percorsa a piedi decidere di fermarsi a dormire lungo la via, tra le bancarelle degli ambulanti. I bambini si addormentano nelle braccia delle madri con gli esili corpi ossuti sdraiati per terra».

Questa testimonianza accorata illustra chiaramente come le scene degli sfollati siano diventate ormai immagini che fanno male all’anima e fanno crollare anche coloro che un tempo pensavano di poter resistere. A questo quadro di supplizio quotidiano, Ahmad Al-Hajj del campo di Al-Nuseirat aggiunge la sua testimonianza: «Il giorno previsto per l’evacuazione, è giunta notizia che al forno più vicino era arrivata la farina. In un’area sotto minaccia di evacuazione, le opzioni erano entrambe angosciose: rimanere nella speranza di un po’ di pane o scappare dai bombardamenti».

Queste parole sintetizzano il crudele paradosso che la gente deve affrontare tutti i giorni: scegliere tra la fame e la morte, tra aspettare del pane o scappare dalle bombe. Queste parole mostrano in che modo siano state completamente capovolte le decisioni individuali e le priorità per la sopravvivenza.

Le priorità, infatti, oggi sono diverse: garantirsi un tozzo di pane è diventato più importante che istruirsi, e scrutare il cielo per avvistare un bombardiere ha la precedenza sulla programmazione del futuro. I gazawi padroneggiano ormai l’arte della sopravvivenza in condizioni invivibili: dormire all’aperto, spostarsi soltanto con l’essenziale, memorizzare luoghi che potrebbero essere “sicuri”, anche se la sicurezza non esiste più. Questo drastico cambiamento nei comportamenti – il passaggio da una vita abitudinaria alla mera sopravvivenza – è una cruda testimonianza dell’entità della catastrofe e di come sotto una minaccia continuata l’esistenza umana può trasformarsi.

Le recenti spedizioni di aiuti umanitari sono arrivate nella Striscia di Gaza tramite il confine a Karm abu salem, per alleviare la sempre più grave crisi umanitaria. Tuttavia, malgrado se ne sia parlato molto, gli aiuti hanno un ben piccolo impatto in loco, tra le crescenti critiche per le risposte tardive e la scarsa pianificazione.

I residenti locali e gli operatori umanitari riferiscono che le quantità limitate di aiuti soddisfano soltanto una percentuale minima dei bisogni di oltre due milioni di persone sotto assedio da mesi. Gli sforzi per distribuire gli aiuti hanno fallito miseramente nel raggiungere la popolazione più vulnerabile, a causa dell’assenza di corridoi sicuri e di garanzie per un accesso protetto agli aiuti. Alcune spedizioni sono rimaste in aree esposte o vicine alle zone di conflitto, dissuadendo molte persone dall’avvicinarsi nel timore di essere bombardati o presi di mira dai cecchini.

Il dodicenne Abdullah Abu Zaid, del campo profughi di Al-Bureij, racconta: «Sono andato a prendere gli aiuti dal centro di distribuzione di Rafah. Per arrivarci ho dovuto percorrere a piedi più di venti chilometri. Quando sono arrivato, però, la folla affamata aveva già razziato le provviste. Non ho trovato niente da portare indietro per me e la mia famiglia».

La testimonianza di Abdullah mette in luce la cruda realtà: anche quando raggiungono Gaza, gli aiuti non arrivano alle persone che ne hanno più bisogno. E si trasformano in una scena di caos e di assalto disperato.

Gli osservatori sostengono che lo scarso coordinamento con le organizzazioni umanitarie locali e la mancanza di efficaci piani di distribuzione sul terreno hanno compromesso l’effetto degli aiuti. Nel frattempo, gli attivisti per i diritti umani dicono che questi sforzi assomigliano quasi a “manovre mediatiche” miranti ad alleggerire la pressione politica sui governi che appoggiano Israele, più che a tentativi di risolvere la crisi alla radice.

Traduzione di Anna Bissanti

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