Per partito perso di Fausto Anderlini e Marcella Mauthe Degerfeld (Bordeaux Edizioni) è una lettura impietosa della parabola che dal Pci ha condotto a Pds-Ds-Pd col corollario quasi postumo di Articolo 1 e LeU
La sinistra un popolo non l’ha trovato, lo ha costruito. Così parlavano i dirigenti del comunismo italiano. Ma cosa accade quando un ceto politico impastato col mito della società liquida e abbacinato dal governo come fine, quel popolo sceglie di abbandonarlo per serrarsi nel perimetro confortevole delle grandi città?
C’è un saggio prezioso da leggere e discutere che da qui prende le mosse dando conto dell’errore compiuto da quella sinistra e dai suoi eredi. Per partito perso di Fausto Anderlini e Marcella Mauthe Degerfeld (Bordeaux Edizioni) è una lettura impietosa, per ciò stesso sincera, della parabola che dal Pci ha condotto a Pds-Ds-Pd col corollario quasi postumo di Articolo 1 e LeU.
L’analisi è colta come di rado accade di incrociare, scomoda le radici di una dottrina animatrice della “storia in atto”. Si parla di quella forza improntata allo storicismo di Gramsci con una società italiana «centrata sull’arretratezza e il mancato compimento della rivoluzione liberal-borghese» all’origine di una democrazia «sempre esposta al pericolo incombente della reazione».
Da lì un filo snodato dall’unita delle culture popolari nell’azione antifascista alla “giraffa” togliattiana sino a quel ciclo berlingueriano che gli autori giustamente difendono dalle critiche di Luciano Canfora. Il racconto fonde memorie, biografie, pagine di una umanità entusiasta e dolente. I punti di caduta? Per primo gli effetti di un «mondo territoriale» senza agganci «con la propria storia». Dove una colpa s’impone per dolo, l’avere sacrificato l’organizzazione del soggetto coi suoi limiti, ma anche risorse ineguagliate. Difficile definirlo dettaglio.
Nel vuoto di quella trama – sezioni, riti, conflitti espliciti o repressi – a imporsi è stato il partito degli eletti. Tra le ricadute una scarna agibilità per quanti dal circuito istituzionale sono rimasti esclusi col ritorno a un accesso patrimoniale alle cariche elettive. Brusca capriola non già nella militanza di massa, ma nel notabilato di inizio ‘900. Il giudizio finale risulta inappellabile, «Il Pd è ormai un sepolcro imbiancato, difficilmente redimibile dall’interno. Dove domina una vera e propria antropologia a sfondo liberale, asserragliata nei ceti benestanti e abbarbicata alla governabilità di sistema».
Ora, come i due autori possono intuire dalla sentenza mi allontana la collocazione di quel soggetto, il mio appunto, nel gorgo del presente. Avendo attraversato le sue diverse stagioni, dentro quella forza ho scelto di rimanere durante e dopo la stagione che più mi pareva distante dalle radici del progetto perché convinto che proprio la fragilità della nostra democrazia imponga da sempre un’anima portante, un partito, capace di aggregare dentro e attorno a sé la spinta sufficiente a impedire derive rischiose.
Altre e altri hanno compiuto scelte opposte, e siamo al corollario dell’esperienza scissionista che gli autori hanno condiviso con passione e lealtà. Qui la critica si fa non meno spietata, denuncia l’irrisolta fase costituente annunciata da Enrico Letta e il ripiegamento di quanti avevano perorato una nuova ricerca altrove dentro la casamatta del partito maggiore.
E siamo all’ultimo tratto che legge il Movimento 5 stelle quale interprete della tradizione abbandonata dal partito storico. La suggestione illustrata nelle pagine finali si volge a ciò che non è stato: una fusione tra la sinistra orfana di una casa propria e la forza capitanata da Conte capace di colmarne il vuoto. Nulla di ciò si è dato lasciando muta la risposta se qualcosa di simile avrebbe saputo rimotivare un popolo disamorato.
Personalmente ne dubito per il motivo accennato sul bisogno di un pilastro portante per peso e consenso, ma con una ragione in più. Ed è che innanzi a un mondo scosso e senza più il vecchio ordine, esposto ai «fenomeni morbosi» descritti da Gramsci, torna pressante il bisogno di una forza con radici piantate nelle culture storiche che la democrazia hanno ricostruito e meno dipendente dalla sola leadership che pro tempore la rappresenta.
Insomma, peccherò di fiducia, ma penso ancora possa essere il mio partito, non da solo e sotto la guida accorta di una giovane donna, a farsi garante dell’alternativa a una destra aggressiva verso il compromesso costituzionale per come ereditato. Detto ciò, incrociare un’analisi critica e così carica di scavo e vitalità mi fa sperare in un fronte comune per affrontare tra un paio d’anni la madre di tutte le sfide. Se da posizioni diverse sapremo vincerla, forse verremo assolti anche dai peccati che nel tempo non abbiamo avuto il coraggio di compiere.
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