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La possibilità di condurre una vita buona, con l’altro e per l’altro nell’ambito di istituzioni giuste. È in questo ideale che ritroviamo la natura profonda della visione etica di Paul Ricoeur. Una frase limpida e vibrante come un verso. Una frase che mostra l’orizzonte della sua filosofia pratica nei suoi elementi essenziali: la vita buona, la relazione con l’altro, l’amore che nelle istituzioni si fa giustizia. È qui, nella tensione tra il desiderio di felicità e l’esigenza della giustizia, che si gioca la possibilità di un’etica incarnata, ospitale, capace di rispondere alle ferite del mondo senza perdere la speranza.
L’io nella sua soggettività non è mai isolato. Questo il punto di partenza della sua riflessione etica e politica. L’io va facendosi e costituendosi in una relazione, in una narrazione, nella promessa che stringiamo con l’altro. Una soggettività quindi che non può esistere chiusa in sé stessa, ma che per sua natura si apre necessariamente all’altro da sé. Questa apertura è possibile, però, solo a partire da un sé che si è già costituito nel suo stesso auto-riconoscimento, in una identità personale formata, una “ipseità”. Diventiamo ciò che siamo raccontandoci a noi stessi. Sviluppando la trama della nostra esistenza tenendo insieme discontinuità e coerenza, memoria e storia. È un processo che ci espone innanzitutto al confronto con l’“alterità interna”, con l’inconscio e con l’errore. Questa narrazione fornisce senso al “chi siamo” superando la mera conoscenza di “cosa siamo”. Ma tale conoscenza non è fine a sé stessa. La costituzione dell’ipseità rischierebbe di rimanere inconclusa se non si aprisse all’incontro con l’altro. La dimensione epistemica del riconoscimento di sé diventa dimensione etica nel riconoscimento dell’altro. Riconoscere l’altro come altro-da-sé implica la capacità di empatizzare, di condividere la sofferenza e la gioia altrui, in un atteggiamento di “sollecitudine”. Riprendendo la “Fürsorge” heideggeriana, in virtù della quale l’esser-ci, si pensa in relazione agli altri e si prende cura degli altri esseri, la “sollecitudine” è per Ricoeur l’espressione della reciprocità tra l’amore per sé e l’amore per l’altro. Non si tratta di puro altruismo unilaterale, ma di una relazione in cui l’altro è riconosciuto come persona degna di rispetto, capace di parola e, come noi, vulnerabile. Riprendendo la lezione di Lévinas e la sua idea di responsabilità per il volto dell’altro che ci interpella, Ricoeur vende nella sollecitudine una risposta alla sofferenza e alla fragilità umana. La sollecitudine, in questo senso, è ciò che media tra il sé e l’altro, permettendo un’etica relazionale, egocentrica. Si trasforma, in questo modo, nella forma relazionale della stima di sé. È una forma di riconoscimento che si basa sulla reciprocità, ma non sull’equivalenza: l’altro non è mai riducibile a me. La relazione è sempre asimmetrica. Analizzando la “regola d’oro” – “Fai agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te” – che sta alla base di tutti i grandi codici morali, Ricoeur ne sottolinea proprio la natura asimmetrica. “La cosa più notevole della formulazione di questa regola – scrive in Sé come un altro (Jaca Book, 1993) - è che la reciprocità richiesta si staglia sullo sfondo del presupposto di un’asimmetria iniziale tra i protagonisti dell’azione – un’asimmetria che pone l’uno nella posizione di agente e l’altro in quella di paziente. Questa assenza di simmetria ha la sua proiezione grammaticale nell’opposizione tra la forma attiva di ‘fare’ e quella passiva di ‘ti sia fatto’, e quindi di subire”. Il passaggio dalla sollecitudine alla norma è strettamente legato a questa asimmetria di base, nella misura in cui su di essa si innestano tutte le derive malefiche dell’interazione, a partire dall’influenza fino all’omicidio”. Può allora la “regola d’oro” fondare non solo la sollecitudine ma anche la giustizia, si chiede Ricoeur? Occorre preliminarmente chiedersi chi è questo “altro” che ci interpella? Colui a cui dobbiamo fare ciò che vorremmo fosse fatto a noi. È il nostro vicino? L’amico? Quella specifica persona, un singolo lui o una singola lei? Certamente! Così come per il Samaritano della parabola evangelica, l’uomo derubato e picchiato dai briganti è innanzitutto “quel” particolare individuo, ferito e sofferente. Ma non è solo quello. L’altro è l’“altro da noi”, il più lontano, il più diverso, quello con cui non c’è affinità. Ricordiamoci che il “prossimo” della parabola, infatti, non è né il levita né il sacerdote - etnicamente e culturalmente vicini alla vittima dei briganti – ma il Samaritano, il più distante, un sospetto, quasi un nemico. Ecco perché per Ricouer il Samaritano rappresenta la figura della “sollecitudine autentica”, ciò che ci fa rispondere all’altro in quanto altro, senza calcolo, per pura compassione. Se è vero, dunque, che l’amore, nella sua forma più pura dell’agape, ci spinge verso l’eccezione, l’esclusività, la singolarità irriducibile dell’altro, è altrettanto vero che la giustizia deve generalizzare, spersonalizzare, deve stabilire regole, norme, eque distribuzioni. Ed è proprio qui – l’abbiamo visto qualche settimana fa - che sorge la tensione, il cuore inquieto della filosofia di Ricoeur. Un cuore che non si sente costretto a scegliere come davanti a un aut-aut, ma che sceglie di abitare lo spazio tra i poli dialettici. L’amore da solo rischia di divenire cieco, parziale, invasivo; la giustizia da sola rischia di divenire fredda, anonima, spietata. La loro relazione è fragile, eppure feconda: è in questo spazio intermedio che si può tentare la costruzione di un’etica condivisa. Arriviamo così alla terza fase del riconoscimento, dopo quello di sé e quello dell’altro emerge una forma di riconoscimento che ha natura istituzionale e ha a che fare con il diritto, la giustizia e la dignità. Questo è il livello propriamente politico e giuridico: il riconoscimento operato dalle istituzioni verso gli individui che sono oggetto di giustizia non solo in quanto beneficiari di un trattamento equo, ma, soprattutto, come soggetti di un riconoscimento pubblico della loro dignità di persone e di membri di un gruppo che li identifica come portatori di diritti. In questo senso la “politica del riconoscimento” non può essere intesa solamente come una, seppure legittima, gestione del potere. Dalla politica dobbiamo esigere la costruzione di spazi simbolici e giuridici in cui i soggetti possano vedere riconosciuta la propria dignità, la propria voce, la propria memoria. Si pensi alle questioni delle minoranze, degli oppressi, dei colonizzati. Le istituzioni non sono, tanto e solo, screditati apparati burocratici, sono il luogo in cui l’etica si fa stabile, visibile, operativa. Non sono semplicemente il “luogo della regola” – scrive Ricoeur - ma quello della “promessa mantenuta”. Esse custodiscono la memoria delle nostre promesse sociali, la possibilità di una fiducia mediata, la forma visibile della cura.
Pensiamo alla scuola pubblica. Non è solo un’istituzione educativa: è una promessa fatta a ciascun bambino, anche al più fragile e al più lontano, che il sapere è un bene comune, e che nessuno deve restarne escluso. Oppure consideriamo l’ospedale: luogo dove la vulnerabilità del corpo incontra la cura nella forma del sapere tecnico (cure) e in quella del contatto fisico ed emotivo (care). Anche lì, ogni protocollo, ogni prassi sanitaria, ogni decisione etica, si colloca nella tensione tra l’universalità del diritto alla salute e la singolarità del volto del paziente. Immaginiamo un giudice. Davanti a sé ha un giovane imputato, reo confesso. La legge è chiara: la pena va applicata. Ma il giudice, nel pronunciare la sentenza, sa che non ha davanti solo un caso. Ha una vita. Ricoeur non chiede che il giudice disattenda la legge. Chiede che, nel suo gesto, la giustizia non dimentichi la sollecitudine.
La giustizia, in questo senso, non è lo sguardo bendata o l’equilibrio asettico della bilancia. E’, piuttosto, la capacità di ospitare il racconto dell’altro entro una cornice condivisa di diritti e di doveri. Una cornice che deve essere continuamente interrogata, trasformata, resa più giusta da chi vi partecipa.
Un tassello fondamentale in questo mosaico di riconoscimento istituzionale è costituito dal rapporto con il passato, con la consapevolezza della storia. Solo attraverso un lavoro di memoria e giustizia prospettica è, infatti, possibile costituire un’identità collettiva che non neghi il dolore subito né quello inflitto. Il ricorrente dibattito sulla festa del 25 Aprile mostra come ancora oggi nel nostro paese tale memoria non si pacificata e il processo di riconoscimento reciproco sia lungi dall’essere completo. Ma per fortuna le storie di riconciliazione non sono tutte così ambigue e inconcluse. Uno degli esempi più significativi è ciò che è avvenuto in Sudafrica all’indomani della fine dell’apartheid. La domanda che attraversava il paese era tremenda: come ricucire una nazione lacerata da decenni di violenza e segregazione? Punire o perdonare? Dimenticare o ricordare? Guidate da figure come Desmond Tutu e Nelson Mandela, le istituzioni scelsero una via altra, ispirata a una visione ricoeuriana ante litteram: la via della verità che si pone a fondamento della giustizia, la memoria come luogo del riconoscimento reciproco e il perdono come superamento della logica della vendetta. Ricoeur ci offre le categorie per comprendere questo processo epocale perché nella sua prospettiva il perdono è la faccia nascosta della giustizia e la sua manifestazione più alta. Non c’era in quella scelta di popolo un rifiuto della giustizia, ma un tentativo di riscriverla alla luce del riconoscimento del nemico come parte della stessa storia tragica.
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