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Che cosa sta succedendo nella club culture, cioè in quello che in Italia chiamiamo il mondo delle discoteche? Se bambini, preti, manager, ballerine, politici, influencer, modelle sono riconosciuti come dj, quale spazio resta al disc jockey, quella persona che cavalca sui dischi?
Sembra che l’accessibilità universale agli strumenti e all’estetica del disc jockey, in uno dei paradossi della democratizzazione tecnologica, abbia dissolto la sua autorevolezza. Quando tutti possono essere dj, nessuno è più dj. Il disc jockey è stato agente di mediazione culturale attraverso la manipolazione temporale e spaziale del suono, un’antenna che ha saputo ricevere istanze e trasmettere senso, quasi un organo sensoriale collettivo che ha ascoltato, interpretato e ri-articolato il flusso sonoro della cultura del tardo Novecento. Con il cambio di panorama sociale però, ha perso il ruolo di entità ordinante delle istanze giovanili postmoderne. Certo abitiamo una cultura che ripone nel dire di essere qualcosa la realizzazione dell’essere realmente qualcosa, nella quale, cioè, è sufficiente dire di essere per essere, impadronirsi dell’estetica di una professione o di un ruolo basta per essere quella professione o ricoprire quel ruolo, grazie ad un processo di legittimazione attraverso la performance, ma il «tutti dj» è uno dei sintomi dell’agonia della club culture.
Intendiamoci, il sistema è più ampio dei singoli dj e coinvolge molte più professionalità, ma il fatto che una persona ripresa mentre mischia dischi chiusa in un cesso di 5 m² mascherata con un costume di scena scelto per l’occasione, sia percepita come un dj solo perché mima le azioni di un dj, finisce per parodizzare l’intera cultura del clubbing. Persone isolate dal mondo esterno, chiuse in un bagno espletano un bisogno egoico personale ormai alienato da quello collettivo nel quale la dj culture ha prosperato. La performance nel micro cesso, come quelle in mezzo ai prosciutti in una salumeria, alle passate di pomodoro in un negozio di alimentari, tra i vestiti usati in un mercatino domenicale, o tra le zucchine e i pomodori di un mercato rionale, rilocano (direbbe Francesco Casetti) l’esperienza del dj set per lo spettatore. Quello spectator latino che, appunto, guarda il disc jockey e mentre guarda lui guarda anche le mattonelle del bagno, i prosciutti, i panni usati e le zucchine. Un tale spectator, dedito alla visione è distantissimo da un clubber che invece ascolta la musica in una discoteca nera e buia nella quale, al contrario non c’è molto da vedere.
NEUTRALIZZAZIONE Questa rilocazione del dj set in spazi non convenzionali non è solo una questione di spostamento fisico, ma implica un fraintendimento del significato culturale della pratica che non è mediato da un ripensamento dell’arte del djing, rimasta ferma mentre in un panorama si è spostato. La conseguenza è la quotidianizzazione del sabato sera, la normalizzazione e in ultima analisi, la neutralizzazione dell’arte del djing e dell’energia costruttivamente sovversiva della club culture. Dal dj degli anni Ottanta che non aveva bisogno di farsi vedere, ma di farsi sentire, a quello in consolle degli anni Novanta, sopraelevato rispetto alla pista ma senza riflettori addosso, al dj superstar degli anni Dieci su un palco, con tutti gli occhi e le luci su di sé e uno stuolo di assistenti a risolvere i suoi capricci da rockstar, fino al dj performer e influencer di oggi, dedito alla messa in scena più che alla messa in suono, c’è stato un cambio culturale non metabolizzato. Da leader a performer, da sciamano a clown, la figura del disc jockey è così finita per essere la versione antitetica di se stessa.
Ma non si tratta di ricordare qui quanto i dj fossero meglio prima, non c’è alcun intento retropico. C’è piuttosto l’urgenza di capire cosa abbia depotenziato quella dance culture che dagli anni Settanta ha saputo essere il luogo di anticipazione culturale del contemporaneo, spesso operato dalla comunità nera e dalle comunità gay. Come un modo di produrre cultura che ha influenzato ambiti molto più larghi delle discoteche, abbia perso energia in un panorama mediale fortemente discreto. Entro il 29 dicembre 2029 non ci saranno più club in Inghilterra.
La Night Time Industries Association (NTIA) ha lanciato l’allarme con la notizia di dieci chiusure di club al mese, che porteranno all’estinzione di una cultura che per il Regno Unito, patria dei rave e di tanta musica elettronica e dance, corrisponde alla perdita di un’identità culturale. Come se in Italia chiudessero il Festival di Sanremo. Anche in Italia, del resto, le discoteche stanno scomparendo, disgregate in mille bar e baretti, mercatini, alimentari, enoteche popolate da dj aperitivo e dj per signora, nei quali nello Spritz si annacqua la caratteristica fondamentale del clubbing, ossia la comunanza dell’espressione attraverso il corpo nel ritmo. Se la dj culture ha avuto il ruolo di medium di esperienze condivise, proprio attraverso l’influenza sui corpi, ora sembra alla prese con la reiterazione simulata della propria estetica come sostituto dell’esperienza autentica. Insomma, nel dj set rilocato scompare la dimensione collettiva dell’esperienza profonda, banalizzata in un fenomeno individualizzato e frammentato ad uso social.
Proprio della necessità di de-socializzazione della dj culture ha scritto Four Four Mag, notando come i social media abbiano creato un ambiente in cui l’apparenza è più importante della sostanza. Il dire di essere dj è diventato sinonimo dell’esserlo. In questo modo, usare costumi di scena e indossare un’estetica fatta di movenze e atteggiamenti in consolle solo per essere rilevanti online, monopolizza la creatività dei disc jockey e diserba quell’autenticità che è richiesta specifica delle ultime generazioni.
I SINTOMI Siamo alla prese con alcuni dei sintomi di un processo complesso, come quelli legati a ogni mutazione del panorama culturale. La ultime generazioni bevono sempre meno alcolici. Gli smartphone distraggono dal ballo e inevitabilmente inibiscono chi ama buttarsi per l’aria nei locali perché rischia di finire in qualche video di TikTok (tanto che anche in Italia sono nate serate tipo No Name, nelle quali è vietato l’uso di smartphone). Il divieto di fumare nei locali provoca un turnover continuo nella pista da ballo, generando un’esperienza tipo quella che si avrebbe guardando un film uscendo dalla sala per fumare ogni venti minuti. In un articolo del Financial Times dedicato alla clubsterben (parola tedesca per morte del club), in particolare al declino globale della club culture notturna, tra le tante cause di disgregazione del clubbing ci sono proprio gli eventi diurni, quelli in cui i dj set sono rilocati in non-locali da ballo, relegando i dj nel ruolo di playlist, fornitori di colonne sonore per gente che fa altro: mangia, parla, fa yoga… Anche il Watergate di Berlino è fra i tanti club che hanno chiuso dopo anni di storia, così oltre al Regno Unito anche Berlino è afflitta da un’epidemia che sta portando alla scomparsa dei club.
L’elemento che mette in crisi la dj culture sembra essere un cambiamento della società in parte slatentizzato anche dai nuovi gusti musicali. La dance non è più la musica del giorno e della strada. Soppiantata dal nuovo suono urbano con il quale condivide suoni e tecniche oltre che una vasta produzione destinata proprio ad essere ballata nei club. La dance ha abdicato al nuovo suono della strada: la trap. Con le sue radici nella cultura black e urbana, la trap ha preso gli entusiasmi dell’ultima generazione, con la quale condivide sostanze, istanze e un mood aggiornato e funzionale al contemporaneo. La trap ha in parte sostituito la dance come espressione predominante della cultura giovanile, come slancio in avanti nella ricerca sul suono della musica, spostando il fulcro del pop progressista dal club alla strada, quella stessa strada che la dance diserta da decenni. Non è un caso che i vari sviluppi della trap sempre più spesso adottino la cassa dritta della dance, rivitalizzandola in un contesto completamente nuovo.
Ormai il classico popolo della notte non è più appetitoso per i brand. Quel pubblico che era inseguito dai media mentre a sua volta seguiva i dj per tutta la notte rapito dalla magia con la quale in consolle si compiva il miracolo della creazione, ha perso l’orientamento. Se nei dj set si realizzava la messa in senso della realtà proposta da chi mischiava e sceglieva i dischi in consolle, ora va in scena una performance smitizzata, impoverita, portata avanti attraverso stimoli ormai pavloviani, quando non magnificata da mega apparati di tecnologia scenografica che fanno risaltare ulteriormente la pochezza del valore musicale e tecnico del disc jockey nel 2025. Il dj sembra apparire solo, sia quando è isolato e distantissimo dal pubblico sui palchi dei mega festival sia quando isolato a suonare davanti a una webcam in un bagno.
REVIVAL L’ecosistema socioculturale di una cultura retro-maniaca e generalmente ripiegata sul proprio passato ha finito per coinvolgere anche la musica dance, ontologicamente forwardista. Anch’essa ha finito per ripiegare sul revival di vari generi e sottogeneri, dalla sempiterna techno alla drum’n’bass, fino al ripescaggio della cultura rave fraintesa, finendo per perdere il grip che la teneva agganciata alle istanze del contemporaneo. Del resto, come sfuggire alla tentazione di ripescare nella disponibilità eterna della musica che consentono la rete e i social artefici di continui ripescaggi decontestualizzanti? On line, su Spotify e sui social tutta la musica è sempre a disposizione, usabile e presente nell’adesso priva dell’ingombrante contesto in cui è stata generata.
A ben vedere, l’arte del djing è nata proprio usando la decontestualizzazione della musica, il suo uso improprio compiuto attraverso il cut up di porzioni di dischi che frammentava la musica lineare in una sfida all’autorialità e all’originalità modernista. Il dj era re dell’intertestualità postmoderna, promotore del collasso delle gerarchie culturali, pescatore nel mare magnum della cultura e della musica pop con la voglia di risignificare attraverso la giustapposizione. Il suo regno è durato fino a quando il legame con il suo popolo postmoderno è rimasto vivo e vivace. Poi il contesto è cambiato e il prodotto del discreto remixato in una nuova forma ha perso presa sull’attuale. L’antenna ha smesso di ricevere e trasmettere. La dj culture dal fronte avanzato del presente è scivolata indietro, inghiottita dal tempo e dall’impossibilità di ricevere dalla società desideri, passioni, aspettative e incapace, quindi, di ritrasmetterle, dando e ricevendo senso. La cultura regina del postmodernismo musicale ha perso la corona davanti al metamodernismo e al suo modo di dare un nuovo significato al presente.
L’ARTE DEL KINTSUGI Stiamo osservando la frantumazione della club culture? Forse il dj di Osaka Yousuke Yukimatsu, mentre era ospite di Boiler Room Tokyo, ha pensato di usare il mixer per rimettere insieme i pezzi della dj culture usando l’arte giapponese del kintsugi, cioè sanando le crepe con l’oro. Petto nudo, testa rasata, nessuna concessione a stravaganze di nessun tipo, nessuna sessualizzazione, nessuna concessione istrionica.
Yousuke è serio mentre suona, terribilmente serio. Nessun sorriso anche se tutti intorno a lui si tirano per l’aria. Chi conosce il format di Boiler Room ha presente i video della nuvola di persone con al centro un dj. In un setting che scavalca ogni separazione fra artista e pubblico, Yousuke Yukimatsu suona la fine della festa mentre intorno tutti fanno festa e con centinaia di smartphone riprendono tutto per spacciarlo sui social. Come quando si fanno i video a due che si menano per strada. Boiler Room Tokyo è in fiamme e Yousuke mena. Occhi bassi sulla consolle, sovrapposizioni emotive intense create con sovraccarichi digitali. Somme continue di musiche: 100 gecs, Skrillex, Underworld, ma anche il malese Tzusing, The Prodigy e ovviamente Fred Again, Overmono e Chemical Brothers e poi altro hyperpop con Sophie e per finire Karla Borecky e Lorenzo Senni.
Arrivano momenti di puro noise digitale giapponese (lontano da quello analogico di Zeni Geva), musica caucasica senza quel groove nero pilastro mitico della dj culture, ma manipolata come fosse death metal. «Everybody is wondering, everything is upside down» esce dalle sovrapposizioni noise di Yukimatsu. Così l’evoluzione metamoderna del djing usa la manipolazione tecnologica non per commentare la cultura esistente, ma per generare esperienze condivise. Non sono più funzionali ormai il remix e la giustapposizione tipici del postmoderno, il mondo è cambiato e la nuova generazione cerca altre sintesi attraverso combinazioni laiche e anche radicali di generi diversi, chiede una rinnovata profondità anche attraverso la mediazione tecnologica. Forse i pezzi della club culture possono essere ricomposti quando un dj approda a uno dei principi chiave del metamoderno: esprimere sincerità e creare autenticità attraverso, e non nonostante, l’artificialità dei mezzi digitali. Tutti si fanno domande mentre è tutto sottosopra, non è più il momento del dj mascherato rilocato a suonare in qualche posto improbabile, perché il contesto postmoderno di quel modo di essere dj non esiste più. Quello che va in onda nei club è solo reiterazione malinconica di una formula inadeguata al nuovo panorama.
La lista dei pezzi suonati dai dj parla di loro in modo chiaro, più di qualsiasi dissertazione. Yousuke Yukimatsu è un dj della generazione X, ha quarantacinque anni e suona per un pubblico di ultima generazione. Nel suo set per Boiler Room Tokyo, acclamato come una rivelazione nell’arte del djing, ci sono pezzi di 100 gecs e Sophie che sono l’espressione di una nuova sincerità post-ironica nell’era avanzata di Internet: l’hyperpop, un movimento musicale e culturale affiorato intorno al 2010, un tentativo di risposta all’accelerazione (anche e non solo dei bpm) e al capitalismo digitale. Julie Ackerman autrice di Hyperpop, il pop dell’era del capitalismo numerico pubblicato da Not (Nero) lo definisce cartoon-capitalismo: «Tutto è semplificato, tutto dà l’illusione di essere più di quello che davvero è». L’hyperpop spinge all’estremo i mezzi del capitalismo per appropriarsene attraverso l’uso spinto delle tecnologie anche al fine di immaginare una società meno prevaricatrice. Voci iperdigitalizzate, suoni radicalmente sintetici fusi in canzonette super pop e motivetti da cartoon drammatici, esaltano i potenziali sintetici del reale mentre creano futuri elastici.
HYPERPOP Il passaggio dalla sensibilità postmoderna a quella metamoderna segna un cambio di paradigma nel modo di relazionarsi e produrre cultura digitale. L’hyperpop attraversa questo passaggio proponendo una sincerità che abbraccia l’artificialità invece di commentarla ironicamente, mentre il dj re della ricomposizione postmoderna della musica va in crisi, mostrando l’obsolescenza della club culture. La dj culture tradizionale fatica a connettersi in modo significante con un pubblico giovane che è alla ricerca di esperienze più intense e autentiche. Dare senso attraverso la giustapposizione è diventato inadeguato, mostra sempre più crepe sotto la pressione di un’epoca nella quale la manipolazione digitale è il linguaggio nativo dell’espressione musicale.
Yukimatsu forse prova a saldare quelle crepe abitando da dj la stessa sensibilità metamoderna dell’hyperpop, cercando momenti di trascendenze emotive sincere attraverso la manipolazione tecnologica lontanissima dal culto del groove nero. Un episodio di ritrovata risonanza rumorosa fra dj e istanze di una generazione che percorre l’artificialità non in opposizione all’autenticità, ma come mezzo stesso attraverso cui fare esperienza di emozioni genuine. Una generazione per la quale il dj postmoderno in versione rilocata ha smesso di essere datore di senso.